Olimpiadi di Città del Messico, 1968.
Peter Norman, Tommie Smith, John Carlos, Lee Evans, Larry James, Ron Freeman, gli studenti ribelli messicani: tutti nostri fratelli.
SECONDA PARTE
Mancava poco, dovevamo rientrare al centro del campo per ricevere le medaglie, poi Carlos se ne accorse all’improvviso: “Ho lasciato i guanti al Villaggio olimpico, mi disse, e adesso che faccio?”.
All’inizio non compresi: mi spiegarono che volevano salire sul podio con il pugno alzato e guantato di nero, il colore della rabbia della loro gente. Dissero che era necessario farlo. Che non potevano accettare la medaglia senza dare un segnale forte. Presi la mano di uno dei due, gliela strinsi, dissi che stavo dalla loro parte. Poi Smith prese la decisione: “Io i guanti li ho, io vado avanti, lo faccio…”.
Mi intromisi, suggerii di darne uno a Carlos. Così si fecero coraggio l’un l’altro, e sul podio alzarono il braccio entrambi, uno con un guanto sulla mano destra, l’altro sulla sinistra. Io rimasi immobile, al mio posto: la scena era tutta loro…».
Tommie e John salirono scalzi sul podio, per denunciare la povertà a cui vengono destinati i neri negli Stati Uniti. I due avevano una coccarda con loro, l’aveva confezionata l’Olympic Project for Human Rights, un’organizzazione nata nel 1967 per protestare contro la segregazione razziale negli Usa, che aveva chiesto agli atleti di appuntarsela al petto in segno di protesta. Norman a quel punto disse ai due ragazzi: «Io sto con voi, datemi una coccarda e la indosserò durante la premiazione. In quel momento pensai di aver fatto la cosa più giusta, fu anche per me un giorno storico e non solo per la medaglia d’argento…».
Quando mi sento giù vado al museo: sto a guardarla e penso che ho fatto poche cose nella vita così oneste. Dopo la premiazione, a Città del Messico, un dirigente della mia federazione invece mi chiese se ero matto, mi disse che appoggiando quel gesto ero diventato loro complice, che avrei pagato sulla mia pelle la protesta di altri. Ma lo rifarei anche oggi. Tutto ciò appartiene al passato ma anche al futuro, perché i diritti umani sono qualcosa da portare sempre in alto…».
Smith e Carlos hanno pagato la loro scelta: la federazione statunitense li squalificò a vita, e una parte dell’America non li ha mai perdonati. Ai tempi dei Giochi di Sydney 2000 insegnavano entrambi, Smith allenava ancora la squadra di corsa del College di Santa Monica a Los Angeles; John Carlos era ispettore in un liceo a Palm Springs. Quel pugno guantato li ha segnati per sempre, soprattutto Tommy Smith, perseguitato da fanatici razzisti per anni. Sua moglie non resse allo stress e morì suicida
Peter Norman verrà osteggiato per sempre dall’atletica australiana. Nonostante raggiunga il tempo necessario per le Olimpiadi di Monaco 1972, per cinque volte nei 100 e per tredici volte nei 200, il Comitato Olimpico australiano preferì non mandare nessuno a correre gli sprint piuttosto che mandare lui.
Non lo invitò nemmeno ai Giochi di Sydney, né in qualità di tedoforo né di spettatore, come se non fosse mai esistito. Eppure è stato il più forte velocista australiano di tutti i tempi. Solo cinque mesi fa il Comitato Olimpico australiano ha fatto retromarcia e gli ha assegnato l’Ordine al Merito, la massima onorificenza sportiva. Cinquant’anni dopo, fuori tempo massimo.
Peter Norman è morto solo. Ma John Carlos e Tommy Smith il 6 ottobre 2006 hanno voluto esserci. E portare in spalla la sua bara di legno marrone scuro. L’unico modo che avevano per dirgli grazie per l’ultima volta. Peter Norman, due anni prima, era venuto a Sydney per vedere la finale dei 200 metri. Ospite di nessuno, si era pagato il biglietto come un uomo qualunque.
Nella stessa olimpiade di Città del Messico 1968, altri tre atleti afroamericani, Lee Evans, Larry James, Ron Freeman, rispettivamente medaglia d’oro, d’argento e di bronzo nei 400 metri piani d’atletica leggera, saliranno sul podio olimpico con tre baschetti neri in segno di solidarietà dei loro amici John Carlos e Tommy Smith, contro la segregazione razziale negli Stati Uniti. Anche loro verranno espulsi dal villaggio olimpico.
Chi lotta fino alla fine noi lo salviamo.
Un grande esempio di solidarietà e lotta contro l’ingiustizia, di dignità insorta.
Non vi dimenticheremo.
CONTROCULTURA: SPAZIO APERTO BE.BRECHT – TRENTO