Pubblichiamo con entusiasmo, gratitudine e impegno militante lo scritto di una compagna che conosciamo e che apprezziamo molto

Le teorie, la storia e il collettivo

Personalmente tendo a collegare le teorie con la storia e a valutarle secondo la direzione, rivoluzionaria o reazionaria, della spinta alla storia che riescono ad imprimerle.

Attribuisco alle teorie queer e transfemministe il grande merito storico di aver ripoliticizzato il movimento LGBTQ che dopo il ’68, i moti di Stonewall e gli anni ‘70, ha perso l’aspirazione rivoluzionaria che ispiravano le sue pratiche di lotta. In Europa i vari fronti rivoluzionari francesi, inglesi e italiani con il FUORI! di Mario Mieli (noi lgbt abbiamo antenati rivoluzionari di tutto rispetto), hanno avuto progetti di lotta totalizzanti e rivoluzionari: ossia che non si poteva sovvertire l’oppressione di genere senza sovvertire il capitalismo e che la liberazione dell’Eros represso, stigmatizzato, fosse antidoto al predominio mortifero del capitalismo e della sua norma eterosessuale. Questa politica era una politica delle identità, una politicizzazione dell’identità, a partire cioè dalla propria condizione di oppresso, perché omosessuale, lesbica, trans, e a partire dalla materialità delle proprie vite messe al margine, si sono collettivizzate pratiche di lotta contro il comune nemico. Poiché la trasformazione del presente ha a che fare con il recupero della memoria storica, personalmente ricordo con orgoglio questa parte di storia del movimento LGBTQ che non è stata il frutto di una nozione mistica della marginalità ma il frutto di esperienze di oppressioni vissute e trasformate in lotta!

Con gli anni ’80 il riflusso c’è stato per tutti; Thatcher, Reagan, neoliberismo. La comunità lgbt è entrata in questo riflusso pienamente e con un elemento aggravante e rafforzante che è stato l’Aids, un flagello che ha decimato la vecchia guardia di compagni militanti rivoluzionari che erano quelli che avevano più sperimentato l’Eros, non perché depravati ma perché il progetto politico passava anche da questo tipo di liberazione, ed ha spinto verso la normalità la comunità lgbt e verso la migliore prevenzione possibile: la monogamia. Il movimento si è spostato così tutto sulla politica dei diritti civili: bye bye rivoluzione, welcome riformismo! Si sono abbandonati i diritti sociali, il matrimonio è diventato il punto chiave e la politica dei diritti è diventato un progetto interno e comodo al progetto ideologico neoliberista che ha neutralizzato in questo modo il conflitto sociale, ha smobilitato la base politica depoliticizzandola, e l’identità è diventata identicità, non si trattava più di essere identitari (politicizzati) ma di essere identici agli eterosessuali: dobbiamo essere rispettabili, accettabili, integrabili e quelli che orgogliosamente si definivano froci e frocie in piazza sono rientrati nella normalità della casa, della famiglia, della domesticità, delle aziende e carriere, delle lobby. Così la politicizzazione delle identità, ossia fare dell’identità un posizionamento storico, l’inizio di un processo critico e di creazione di strategie rivoluzionarie, per iscrivere le politiche delle identità (la mia oppressione) in un quadro più generale di oppressione e disuguaglianze (del capitalismo) è diventato un sistema che baratta briciole di riconoscimento delle differenze (matrimonio) per affermare le disuguaglianze! Un congegno neoliberista perfetto!

La teoria queer ha riportato al centro la necessità di istanze rivoluzionarie: queer è, non solo binarismo o non binarismo, ma è innanzitutto sguardo orgoglioso che non vuole essere integrato nella società diseguale classista, razzista, machista, perché in una società diseguale l’integrazione di un soggetto va sempre a scapito di altri soggetti. Infatti il le forme di conflitto si sono spostate verso soggettività meno addomesticabili dei gay o delle lesbiche, cioè le soggettività trans e gli immigrati.

Ed è pertanto anche e soprattutto critica delle teorie che leggono l’esperienza identitaria come basata solo sull’orientamento sessuale poichè l’identità deve tenere conto delle molteplici differenze che formano l’esperienza identitaria: identità non è solo etero o omo ma anche classe età colore della pelle area geografica dove nasci, quindi non solo non solo donna o lesbica ma anche nera o bianca, proletaria o borghese. Perché questo fa la differenza nella materialità delle vite oppresse e sfruttate. Il capitale non è solo genere ma anche classe. Però non è neanche solo classe ma anche genere. Il queer risponde proprio alla domanda di un compagno che si chiedeva che cosa c’entrano le questioni di genere cona la lotta al capitalismo: la disuguaglianza è elemento strutturale del capitalismo e del patriarcato, che si foraggiano a vicenda e non possono esistere senza oppressione di sesso, razza, classe, performazioni di genere. Capitalismo e Patriarcato sono struttura e sovrastruttura, il capitalismo è la struttura materiale del blocco ideologico, il patriarcato, e il patriarcato è la struttura immateriale ideologica del neoliberalismo, giusto per non liquidare come mentalità all’antica e retrograde le attuali. Esse sono ideologie precise di un preciso neoliberismo perché le ideologie sono performative della realtà, fanno la realtà. Cosa dice il queer? Partiamo dalle materialità delle vite queer per costruire assieme la capacità di fare del margine un lavoro collettivo di teoria e prassi contro il comune oppressore, economico e ideologico, che si accanisce contro i corpi e le sessualità eccedenti e dissidenti, così come contro i lavoratori sfruttati e precari, i poveri, gli immigrati, il clima, il territorio! La stessa cosa il transfemminismo, che è stato influenzato dal queer, non viceversa, che si rivolge a chi si sente oppresso dall’etero patriarcato ma intreccia questa lotta con l’oppressione di classe, etnia, genere e orientamento sessuale e di genere. Ben vengano teorie di questo tipo! Io quando le ho scoperte sono stata più felice, mi sono sentita meno sola. E passo quindi al punto successivo.

Le teorie e il singolo (oppresso)

Tutte le forme di dominio generano dolore: sessismo, sfruttamento di classe, omofobia, razzismo, imperialismo. Le buone teorie hanno un valore terapeutico perché l’oppressione produce traumi, segni, cicatrici per guarire dalle quali bisogna innanzitutto conoscere l’origine del proprio male e queste teorie danno nome e cognome all’oppressore, permettono di avere strumenti per riconoscere gli strumenti dell’oppressione, permette un processo di decolonizzazione culturale fondamentale perché per imparare bisogna prima disimparare le categorie dell’oppressione, decostruire per costruire sono operazione che hanno bisogno della teoria e che vanno oltre la teoria perché cambiano le nostre vite, entrano nella materialità delle nostre vite, danno voce e immagini alla nostra sofferenza, ci spiegano se siamo sbagliati noi o il sistema in cui viviamo, ci rendono più felici perché la pratica e il quotidiano sono il banco di prova delle teorie. Le teorie sono come le ideologie, ci sono sempre. Non ho nessuna ideologia è una affermazione post moderna: chi lo dice vuol dire che ha quella dominante: si tratta di capire se abbiamo quella dei dominanti o quella dei dominati.

Dice bell hooks, femminista nera, sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza. Il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo, sono arrivata alla teoria disperata bisognosa di comprendere cosa stesse accadendo fuori di me nel mondo e dentro di me. Aggiungo io: ci vuole una contro teoria e una contro cultura per capire quanto la mia subalternità ideologica mi faccia soffrire anziché orgogliosamente combattere.

Che il femminismo si sia istituzionalizzato, sia entrato nelle accademie è vero, che il queer sia stato strumentalizzato dalle accademie e neutralizzato nella componente rivoluzionaria, e che sia diventato post strutturalismo o decostruzionismo è vero.

Ma questo non deve intaccare di una sola virgola il rispetto della rivendicazione delle identità. Perché quella eccedenza di identità, se politicizzata, può diventare uno strumento di strategie rivoluzionarie. Perché l’identità non è una categoria astratta ma il frutto di esperienze di oppressioni vissute nella materialità delle singole vite e trasformate in lotta collettiva. Diceva bell hooks: la marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza. Un luogo capace di offrirci la condizione di una prospettiva radicale da cui guardare, creare immaginare alternative e nuovi mondi. Non si tratta di una nozione mistica della marginalità. E’ frutto di esperienze vissute.

Sicuramente il pensiero e la teoria femminista è stata mercificata, anzi una merce rara che solo i privilegiati possono permettersi, si è istituzionalizzata, si è accademizzata ed è diventato il femminismo borghese bianco. E quindi? Non si tratta di disprezzare le teorie ma si tratta di rivendicare la teoria come pratica. La teoria è la prospettiva della pratica, il disprezzo o il tradimento di queste teorie minano la lotta collettiva. E qui passo al punto successivo.

Critica all’identitarismo e alle derive delle teorie.

La politicizzazione delle identità è diverso e l’opposto dell’identitarismo. Io per prima lo critico in quanto non permette le alleanze rivoluzionarie di cui il nostro tempo storico abbisogna. Personalmente mi sono formata politicamente con le teorie queer e con la storia della comunità lgbt a cui appartengo. Gli sono grata. Ma con gratitudine me ne sono andata. Me ne sono andata per la deriva subalterna, post-moderna che hanno assunto. C’è differenza tra rispettare un linguaggio inclusivo, la declinazione che ognuno e ognuna vuole per se perché in questo modo rispetto una identità materialisticamente calata in una struttura di diseguaglianze e questo continuo condurre l’importanza delle questioni alla scwa, al tuttu, all’asterisco, alle parole monche, questo continuo ricondurre l’identità alla sola questione di genere, per cui io mi sbellico perché tutti usino la scwa mentre tutti i giorni sono massacrata da condizioni di lavoro e sfruttamento disumane, questa iperdefinizione di sé, questa personalizzazione continua, questa individualizzazione continua che limita tutto alla biografia anziché fare storiografia mi sembra una deriva individualista neoliberale tanto quanto il movimento dei diritti civili: il neoliberismo prevede la moltiplicazione delle espressioni individualizzate del se a patto che tutte le pratiche soggettive siano socialmente normalizzate ed economicamente produttive sia in termini di sfruttamento che di consumo (NB: questa è proprio la critica che fanno i queer). In altri termini: che problema c’è? Ma chiamati come vuoi! Basta che ti lasci sfruttare…

Questa deriva impedisce di intrecciare lotte, di intrecciare comunità di lotte, diventa un fanatismo separatista, un’illusione di lotta gattopardesca affinché rimanga tutto uguale, affinché rimanga uguale il sostanziale. Un concetto post moderno di fine della storia, possiamo cambiare solo l’accessorio mentre la storia rimane uguale a se stessa, immodificabile e soprattutto immodificata da noi.

2 PS.

Ho parlato di me in prima persona portando la mia esperienza di formazione politica e di identità sessuale non per parlare di me ma perché, vista l’impostazione delle riflessioni, esplicitarlo mi sembrava atto politico utile alla causa oltre che un posizionamento politico chiaro utile a me e ai compagni che mi seggono di fianco.

Ho utilizzato il termine oppressione ripetutamente perché non lo reputo la versione sbiadita del concetto di sfruttamento ma al contrario lo trovo un termine più completo delle contraddizioni che lo compongono: il termine sfruttamento fa riferimento alla categoria economica, quello di oppressione fa rifermento alla categoria economica e culturale.

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