Viva l’Intifada studentesca di solidarietà alla Palestina in occasione dell’anniversario della Nakba.

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Studentesse, studenti, lavoratrici e lavoratori uniti nella lotta è un incontro che ha una lunga storia internazionale di straordinaria dignità. Una dignità che insorgendo seppellisce con la sua limpida luce le insinuazioni di un governo italiano subalterno ai milionari che parla di inflitrati nel movimento studentesco.

Un esempio di questo incontro fra studenti e lavoratori sta dando i suoi frutti nell’ accampamento in solidarietà alla Palestina qui a Trento.

Approfondiamo e allarghiamo le lotte e la solidarietà. Partecipiamo il più numerosi possibile. Uniti si vince. Non lasciamo sole e soli le palestinesi e i palestinesi.

Che cos’è la NAKBA?

Riportiamo stralci di un articolo di Ruba Salih, utile per l’impostazione storicamente ineccepibile:

“Siamo andati a dormire nel 2023 e ci siamo svegliati nel 1948”. Questo il messaggio inviato da Gaza nell’ottobre 2023 da una madre, nonna e femminista palestinese di Gaza.

Oggi è l’anniversario della Nakba, la “catastrofe”, avvenuta proprio in quel 1948 ricordato dalla madre palestinese.

Due terzi dei palestinesi vennero espulsi dalle loro terre, i loro villaggi vennero distrutti.

Ma delle immagini, le testimonianze e i video che giungono da Gaza in questi mesi ce n’è una in particolare che testimonia di come la Nakba non sia un momento passato circoscritto nel tempo, ma una struttura temporale, una storia, che ha sostenuto e sostiene il progetto coloniale di insediamento israeliano.

Tra le tende del milione e mezzo di sfollati a Rafah una donna mostra una chiave: la tiene stretta in mano e con gli occhi pieni di lacrime invoca il diritto al ritorno.

Quella che ha in mano non è l’iconica chiave della casa nel villaggio di origine dei suoi nonni, che Israele distrusse nel 1948 con lo scopo di impedire il ritorno dei profughi palestinesi. Non è la chiave che per decenni ha simboleggiato haq el ’awda, il diritto al ritorno, riconosciuto dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite e violato, come altre decine di risoluzioni, da Israele.

La chiave è della sua casa nel campo profughi di al-Maghazi, da cui insieme alla famiglia è stata costretta ad andarsene per sfuggire ai bombardamenti israeliani e alla violenza genocidaria dell’esercito, che dal 7 ottobre ha fatto almeno 40mila vittime e oltre 70mila feriti, distrutto l’80% delle abitazioni di Gaza, ridotto in macerie le infrastrutture sanitarie ed educative e alla fame l’intera popolazione civile. Come lei, i due terzi della popolazione di Gaza sono profughi del 1948: i loro villaggi originari sorgono al di là del muro, oggi al loro posto ci sono insediamenti e villaggi israeliani.

Lo sfollamento forzato di circa l’80% degli abitanti di Gaza e la distruzione dell’intera striscia (con piani di deportazione di massa enunciati da politici israeliani in svariate occasioni) hanno fornito la più brutale e indubitabile prova che Israele è uno stato coloniale d’insediamento il cui intento è l’eliminazione e la «fossilizzazione» dei palestinesi attraverso la distruzione delle infrastrutture e dell’ambiente – del mondo e della vita – indigeni. È ciò che il progetto sionista definì narcisisticamente come «una terra senza popolo per un popolo senza terra».

PENSARE all’effetto della violenza coloniale come una sequenza di case perdute e ricostruite – anche nei campi profughi e in esilio – anziché focalizzarsi sulla mera sottrazione della terra o sulla privazione di uno stato, aiuta a problematizzare il prisma attraverso cui per consuetudine molti leggono la questione palestinese: i palestinesi sono stati privati non solo di uno stato nazionale, ma di casa, intesa come luogo politico e affettivo di esistenza.

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