Stiamo parlando per esempio dell’avvio, due giorni dopo l’inizio della tregua a Gaza dell’operazione «Muro di Ferro» contro Jenin da parte dell’esercito israeliano.
Le intimazioni agli abitanti a lasciare il campo profughi della città sono simili a quelle lanciate alla popolazione di Gaza. «Vogliono trasformare Jenin in un ammasso di macerie come Jabaliya», dicono i profughi temendo che dopo le evacuazioni arriveranno le demolizioni delle case e il campo subirà la stessa sorte del 2002, quando fu in buona parte distrutto dalle ruspe militari israeliane.
Gli ingressi del campo profughi di Jenin sono stati chiusi da centinaia di soldati con i blindati mentre le ruspe militari rendono inservibili strade e infrastrutture civili. Ieri è stata interrotta l’elettricità nel campo. Coinvolta tutta l’area tra l’ospedale governativo e quello specializzato «Ibn Sina» che hanno dovuto far ricorso alle riserve di carburante per garantire l’alimentazione elettrica nei reparti di pronto soccorso, dialisi e terapia intensiva.
La Cisgiordania intanto è sempre più una gabbia fatta di posti di blocco israeliani.
Il quotidiano Haaretz (israeliano) scrive che questa rigida chiusura – resa possibile paradossalmente proprio dagli Accordi di pace di Oslo del 1993 e che rende un inferno la vita quotidiana di milioni di palestinesi – andrà avanti per tutta la durata (42 giorni) della prima fase della tregua con Hamas.


Le chiusure hanno causato la morte di una donna, Iman Jaradat, di Sair (Hebron), colpita da infarto e bloccata dai soldati al posto di blocco di Beit Ainun mentre veniva portata in ospedale.


I coloni israeliani insediati in Cisgiordania invece possono muoversi senza problemi, a conferma dell’apartheid che domina nei Territori occupati.
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